Keynote
Stephen Orgel
“Come essere classici”
Le moderne nozioni di classico furono inventate essenzialmente tra la fine del diciottesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo, veicolate con gli scritti di Winckelmann nella Germania dell’Illuminismo, e col trasferimento dei marmi Elgin nella Londra di inizio Ottocento. Tuttavia l’Inghilterra del Cinquecento aveva cominciato consapevolmente a sviluppare modelli classici nella letteratura e nelle arti visive, e quei modelli oggi ci apparirebbero del tutto diversi da tutto quello che riconosciamo come classico. Che cosa significava essere ‘classico’, cosa appariva ‘classico’ per Sidney e Spenser? L’interesse del periodo fu largamente dedicato alla creazione di modelli classici adatti all’uso poetico vernacolare. Negli anni Trenta del sedicesimo secolo, il conte di Surrey tradusse due libri dell’Eneide in uno stile che si proponeva come classico, un metro inteso come l’equivalente inglese dell’esametro virgiliano. Esso divenne poi noto come blank verse e, in senso stretto, la sua unica qualità virgiliana era quella di essere privo di rima. Probabilmente Surrey considerava il pentametro come ‘naturalmente’ inglese, così come l’esametro era naturalmente latino. Sebbene accortamente profetico, tale assunto non poteva non risultare sorprendente nella prima metà del Cinquecento.
Early Modern and Classical Intersections
Carlo Bajetta
“I ‘classici’ di Elisabetta e Ralegh”
Un penchant per gli autori classici, specialmente della tarda antichità e alto medievali, accomunava Elisabetta I e Walter Ralegh. Se il ricorso a fonti classiche nella produzione letteraria e nella corrispondenza di entrambi è stato oggetto di importanti studi, la provenienza concreta degli originali, le vie e le forme attraverso le quali giunsero all’attenzione della sovrana e del suo favorito e l’aspetto – anche in termini di mise en page – che assunsero nelle loro lettere, poesie e scritti in prosa sembrano aver ottenuto minor interesse critico. Questa relazione si propone di contestualizzare le ‘citazioni’ presenti nella produzione di Elisabetta e di Ralegh da un punto di vista materiale, fornendo esempi tratti dai manoscritti di questi eccezionali protagonisti del Rinascimento inglese.
Francesco Dall’Olio
“Una voce del presente in una storia antica: il ruolo del Vizio in Horestes e in Cambises”
Stampati a pochi anni di distanza, l’interludio Horestes di John Pickering (1567) e la tragedia Cambises di Thomas Preston (1571) sono opere accomunate da una struttura drammatica ‘ibrida’, sospesa fra tratti caratteristici dei generi tradizionali della prima età Tudor e un tipo di scrittura che anticipa i successivi sviluppi del teatro elisabettiano. Il mio intervento considererà un aspetto di questa struttura, il ruolo del Vizio, e in particolare il modo in cui la sua figura esprime il messaggio politico ed etico dei due drammi. Essendo un personaggio cui la tradizione concedeva di poter muoversi al di fuori della finzione drammatica, istituendo un diretto contatto con il pubblico, il Vizio si trova infatti nella posizione migliore rivelare il senso degli eventi che si svolgono sul palco, sia con le sue parole che con le sue azioni. Questo aspetto assume rilevanza anche maggiore quando si considera che entrambe le opere sono state scritte per una rappresentazione in contesti privati (nel caso del Cambises in presenza della regina), e che sono entrambi adattamenti di opere tratte dalla letteratura greca (anche se mediata da altre fonti), il che le rende ancora opere ancora più rivolte a un pubblico colto. In Horestes, la progressiva identificazione del Vizio con la Vendetta sottolinea l’ambiguità dell’azione di Oreste, e rafforza l’invocazione di una vera, autentica giustizia. Nel Cambises, il Vizio, sollevato da ogni responsabilità nella corruzione del protagonista, è paradossalmente il più duro e sincero accusatore del re legittimo ma tirannico. In entrambi i casi, l’analisi del ruolo del Vizio ci fornisce elementi importanti per esaminare e comprendere come il mito antico, con i suoi valori e i suoi temi, sia stato utilizzato per esprimere e confrontarsi con le problematiche dell’epoca.
Marco Duranti
“Oreste nella tragedia rinascimentale europea: depravato, uomo comune o eroe?”
Nel mio intervento mi propongo di illustrare le diverse prospettive sul personaggio di Oreste quali si possono riscontrare negli adattamenti di tragedie greche prodotti nell’Europa del Rinascimento. Intendo mostrare come da un lato egli possa essere presentato come un eroe cristianizzato, che compie una missione prescrittagli da Dio: è questo il caso, ad esempio, dell’Oreste di Giovanni Rucellai, la prima riscrittura di una tragedia greca nella quale Oreste è protagonista, a discapito del personaggio di Ifigenia, che era invece la protagonista della tragedia euripidea di partenza, l’Ifigenia taurica. Altri drammaturghi portano invece in primo piano gli aspetti più controversi del personaggio di Oreste, in particolare il problema del matricidio. Ma anche su questo versante occorre distinguere diversi esiti: se in alcune tragedie, come The Second Part of the Iron Age di Thomas Heywood, si indulge nel mostrare la follia di Oreste e la sua coscienza malata, in altri drammi, come lo Horestes di John Pickering, egli è sollevato dalle responsabilità dell’omicidio e visto piuttosto come una vittima della volontà divina, o addirittura esaltato per il matricidio, che nel suo caso appare legittimo e doveroso.
Una simile diversità di letture del dramma di Oreste ha le sue premesse nell’ambigua presentazione del personaggio nella tragedia greca, ma si ingenera anche dal dibattito sulla natura della tragedia, animato specialmente dall’interpretazione della Poetica aristotelica; riflette inoltre il contesto politico e i fini che ciascun drammaturgo si pone. La mia analisi consentirà pertanto di apprezzare la contaminazione rinascimentale delle fonti antiche, così come la sua relazione con le istanze dell’incipiente modernità.
***
Early Modern Oedipuses
Sara Knight
“Edipo nell’Accademia”
Nella mia relazione esaminerò il modo in cui il mito di Edipo fu rappresentato nelle scuole e nelle università dell’Inghilterra elisabettiana. Farò riferimento all’influente trattamento della vicenda da parte di Seneca, ma la mia discussione si concentrerà principalmente sugli aspetti del mito inclusi da Sofocle nella trilogia tebana, e sul modo in cui i drammaturghi, il cui repertorio era destinato alle istituzioni della prima età moderna, abbellirono il mito. Esaminerò tre drammi tardo-elisabettiani in inglese e in latino, che si conservano su manoscritto e a stampa. La mistione di imitatio e inventio propria di questi drammi è sorprendente, ed indicherò come – e se – ogni autore si relazioni con l’originale greco, o, nel dar forma al proprio testo, si basi piuttosto sulle traduzioni latine o vernacolari prodotte in ambito continentale. Per prima cosa discuterò l’anonimo dramma in lingua inglese A Tragedie Called Oedipus, che fu probabilmente scritto e messo in scena negli anni Novanta del Cinquecento presso il liceo di Newcastle-upon-Tyne o di Berwick-on-Tweed. Questo straordinario manoscritto (Yale University, Elizabethan Club) intreccia sezioni di traduzione inglese da Seneca, interludi, materiale originale sull’infanzia e l’adolescenza di Edipo e un raro arrangiamento musicale. In seguito esaminerò la traduzione dell’Antigone di Thomas Watson (1581), guardando a Watson come a un autore influenzato dall’ambiente di Oxford e degli Inns of Court, e sostenendo che questi contesti istituzionali esercitarono un impatto sulla scrittura di una delle prime traduzioni in inglese del dramma greco. Infine, esaminerò alcuni brani di William Gager da una versione latina dell’Edipo (conservata nei suoi quaderni, British Library Add. ms. 22583), scritta a Oxford (1577-1592). Ricostruire il milieu accademico in cui questi drammi ebbero origine è cruciale per comprendere la particolare enfasi morale e intellettuale che essi derivano dalla loro fonte mitica. L’Inghilterra del tardo sedicesimo secolo assistette al brillante fiorire del dramma accademico, con esiti culturalmente (e pedagogicamente) interessanti degli originali greci o latini. Queste rappresentazioni accademiche del mito di Edipo gettano luce sul vivace mondo parallelo del dramma istituzionale che si sviluppò accanto al ben più conosciuto teatro commerciale.
Robert S. Miola
“Lost and Found in Translation: ricezioni dell’Edipo a Colono nella prima età moderna”
Prendo qui in esame alcuni casi di ricezione di Edipo a Colono nella prima età moderna per accertare che cosa del dramma colpì, in particolare, i lettori dell’epoca, e in che modo gli estratti, i commenti e le traduzioni che ne fecero trasformarono il testo greco per soddisfare scopi politici e morali coevi. Inizierò dalla frammentazione del dramma in sententiae e proverbi effettuata da Bartolomeo Marliani e da Desiderio Erasmo. Quindi, prenderò in esame l’influente ricezione del dramma da parte Joachim Camerarius, che cercò di leggere la tragedia greca alla luce dell’intepretazione di Aristotele e della Poetica propria del suo tempo. La traduzione e il commento di Filippo Melantone proposero una lettura polemicamente cristiana della tragedia greca. Erede di queste tradizioni, John Milton realizzò la rivisitazione che più di tutte brilla per ambivalenza della tragedia greca e dell’Edipo a Colono, il Samson Agonistes (1671). La ricezione di Milton getta luce per contrasto sull’assoluto rifiuto da parte di Shakespeare, in Re Lear, della tradizione delle sentenze moraleggianti e dell’ermeneutica cristiana.
***
Oedipus and Lear
Guido Avezzù
“L’uomo nel tempo: Edipo a Colono”
Risolvendo il famoso enigma della Sfinge, Edipo rivela il nesso che lega in modo inestricabile l’uomo e il tempo, mostrando come l’essenza dell’uomo consista nella successione di infanzia, età adulta e vecchiaia. Eppure, Edipo non conosce se stesso, restando intrappolato nelle ambiguità della tyche nel parlare di sé del figlio del caso (1083), che lo fece prima piccolo e poi grande (ossia potente) nel tempo, al di là di una definizione biologica di nascita, crescita e decadimento. Questa idea della tyche lascia aperta la questione della responsabilità dell’agire. Nella posizione liminale dell’esule in procinto di morire, Edipo a Colono infine risolve questa ambiguità. Sulla soglia del non essere (la morte), quando ormai non è nessuno da un punto di vista sociale – un esule destinato a vagare lontano da Tebe –, Edipo si rifiuta di tornare in patria, ponendo una domanda provocatoria sull’uomo: solo una volta ridotto a ‘niente’ per Tebe, Tebe riconosce che egli è ‘qualcuno’. L’uomo è forse un uomo solo quando ridotto a un niente? Che cosa significa essere un uomo a quel punto? Questo intervento esplora l’idea di ‘uomo nel tempo’ in Edipo a Colono riesaminando gli interrogativi sollevati in Edipo Re su ‘essere’ e ‘non essere’ sul piano sia sociale che mondano e riconsiderando in questo dramma più tardo il ruolo della trascendenza.
Anna Beltrametti
“Drammaturgie della sovranità, della menzogna e della pietà: le lotte tra i figli risvegliano i fantasmi dei vecchi padri”
La relazione cercherà di mettere a fuoco i percorsi di resilienza che Edipo, ridotto ormai al fantasma di se stesso, e Lear, che il Matto indica ormai come ombra, compiono riprendendo potenza e sovranità nei due intrecci complessi (nel King Lear lo schema appare raddoppiato dagli intrighi della casa di Gloucester) giocati sulle menzogne dei figli e sulle loro lotte fratricide per il potere.
Anton Bierl
“Edipo a Colono come riflessione dell’Orestea: l’abominio tebano come eroe ateniese in corso di realizzazione”
La relazione indaga come Edipo, giunto nella sua destinazione finale, gestice sulla scena la propria eroizzazione. Dopo la cacciata da Tebe, il cieco ed errabondo mendicante continua a comportarsi da tiranno. Colono, che ha il significato di ‘tumulo’, è il luogo ideale della sua sepoltura. Oltrepassando lo spazio sacro delle Signore Benevoli, egli fa esperienza della loro seconda natura di Furie avverse all’intruso che viene da fuori. Rendendosi conto di questa ambivalenza – secondo quanto sostengo –, Edipo fa tutto il possibile per installarsi in Atene come una forza analoga. Promettendo di farsi salvatore per la sua nuova città, egli ottiene asilo da Teseo. Mentre anche Tebe, in qualità di luogo tragico dell’‘Altro’, vuole riottenere Edipo per impiegarne il corpo solamente come sema apotropaico al limitare della città, senza assicurargli un luogo di sepoltura all’interno della città, nel demo di Colono la sua tomba avrà una forza doppia. Pertanto, Edipo può seguitare a esercitare una forza negativa contro la sua città di un tempo e allo stesso tempo contribuisce a salvare la sua nuova patria. La relazione esamina come il dramma porti in scena la maledizione di Tebe, allo stesso tempo difesa contro l’Altro e benedizione per Atene. Essa esamina, inoltre, il modo in cui Edipo a Colono presenta Edipo come un eroe in costruzione sulla via verso la propria morte, per concludersi con la mistica sparizione di Edipo in questo paesaggio sacro. Là, egli diventa simile e si fonde con i principali agenti divini del posto, cioè con Demetra come Erinni e anche dea della fertilità, della prosperità e dei misteri, con Poseidone Ippio, il tremendo scuotitore della terra e nume del cavallo, e, soprattutto, con le Semnai Theai, le Eumenidi che agiscono come Erinni contro i nemici. Sotto questo aspetto l’ultima tragedia superstite del quinto secolo rispecchia la canonica Orestea di Eschilo, giocando con e alludendo ai suoi temi e sottintesi politici e religiosi.
Silvia Bigliazzi
“Il tempo e il nulla: King Lear”
La divisione del regno tra le figlie da parte di Lear divide anche il tempo di Lear in un prima, quando era re, e un dopo, quando non lo è più. L’atto del tagliare, separare, distribuire è simbolicamente in linea con il suo voler misurare l’affetto parentale in modo quantitativo, una scelta che produce il sovvertimento dei ruoli, del potere, e del senso, facendo precipitare il tempo nel niente della morte e nell’impossibilità di credere al futuro e nella trascendenza. Riprendendo un tema che aveva già affrontato in Riccardo II, Shakespeare affronta qui, ancora una volta, la questione degli effetti dell’abdicazione su un piano sia socio-politico che privato. Svestendosi del titolo di Re, come Riccardo prima di lui, Lear si riduce a un niente nel sistema simbolico dei segni del potere che ha gestito fino ad allora. Il famoso interrogativo di Lear su che cosa sia l’uomo, che riecheggia l’identica domanda di Montaigne, passa attraverso un’esperienza del niente che risente della storia di Edipo e, al tempo stesso, mette in discussione concezioni tradite sull’essere e il non essere, interrogando il ruolo delle scelte individuali (e quindi del fare). Al contempo, il dramma esplora fino a che punto quelle scelte sono davvero intenzionali, attraverso un’indagine del rapporto tra ragione e follia. Il presente intervento discute l’idea del niente in rapporto all’esperienza soggettiva del tempo e alla sua drammatizzazione in scena, considerando i vari modi in cui il dramma riecheggia e risponde concettualmente, oltre che da un punto di vista performativo, a questioni sollevate secoli prima da Sofocle.
Alessandro Grilli
“La passione secondo Sofocle: regalità e redenzione nell’Edipo a Colono”
Questo contributo prende spunto da alcuni aspetti della teoria sacrificale di René Girard per proporre una lettura comparativa delle figure di Edipo nell’Edipo a Colono e di Gesù nei racconti evangelici della passione. Tra i principali aspetti presi in esame, la caratterizzazione della regalità e la funzione salvifica della vittima sacrificale. Obiettivo dell’analisi è mettere in evidenza tratti specifici della poetica sofoclea in relazione a strutture antropologiche e religiose comuni a contesti storici e culturali molto divaricati.
Vayos Liapis
“Edipo ad Atene: l’integrazione e i suoi disagi in Edipo a Colono”
Edipo a Colono è in larga parte incentrato sull’integrazione dell’esule Edipo all’interno di una nuova comunità politica, Atene. Tuttavia, questo processo non è né semplice, né privo di ambiguità o di paradosso. Per prima cosa, Colono è abitata da membri di una comunità politica (78 dêmotai), ma allo stesso tempo il luogo specifico in cui Edipo e la figlia hanno cercato rifugio – il bosco delle Semnai – non deve essere calpestato (37, 39, 126, 167); in effetti, esso non è diverso da un territorio simile ad Ade (57 “una soglia dai piedi di bronzo”, khalkopous oudos, che ricorda la “soglia di bronzo” di Ade nell’epica), in accordo con l’antico credo (riportato nello scolio antico al v. 57) che il bosco sacro desse accesso ad Ade. Dopo tutto, il bosco è sacro alle spaventose figlie della Terra e della Notte primordiale, le Semnai/Eumenides (39-42). L’ambivalenza del luogo sembra essere pienamente adottata da Edipo. Egli è fermamente deciso a stabilire la propria dimora in questo luogo, perché privo di tutti i tratti di un’abitazione civile. Il paradosso è ulteriormente accresciuto dal fatto che il tragitto di Edipo verso la sua itegrazione prende avvio con una violazione delle usanze del posto in cui desidera stabilirsi: la sua ferma intenzione di rimanere nel bosco (45) è in violazione dei nomima della polis (145 anomon) e il suo atto trasforma un luogo che non deve essere calpestato (167-68 abatôn) in un luogo che è bebêlos o “profano” (cf. 10), dal momento che Edipo ne ha oltrepassato i confini. È un ulteriore paradosso, tuttavia, che la ferma violazione dei nomima da parte di Edipo corrobori nei suoi ospiti il senso di attaccamento ai loro nomima, in particolare quando Teseo e una schiera di guerrieri ateniesi si avviano a recuperare il supplice Edipo dal suo rapitore Creonte. La conclusione del dramma non fornisce una soluzione del paradosso. La tomba di Edipo, in modo anomalo, rimarrà ignota a tutti, comprese le sue figlie (1529, 1640-44, 1724-36, 1756-67); contrariamente alla comune prassi greca, non ci sarà alcuna tomba (cf. 1681) ed Edipo non riceverà i giusti riti presso di essa (cf. 1714). In conclusione, Edipo, anche se precipita nello scompiglio i nomima politici e familiari, è in grado di preservare la sua polis adottiva – la quale, tuttavia, deve mantenersi ben entro i limiti imposti dai suoi nomima perché le benedizioni di Edipo divengano permanenti. Questa tensione paradossale tra rispetto e superamento dei nomima domina il dramma.
David Lucking
“Vedere meglio: il motivo della vista nel Re Lear e nei drammi tebani”
Le affinità tra il Re Lear di Shakespeare e l’Edipo Re di Sofocle, in particolare per quanto riguarda i contesti dei due drammi nei quali si allude agli occhi e alla vista, sono terreno familiare alla critica. Lo scopo di questa comunicazione è quello di considerare, in una prospettiva più ampia, la relazione di Re Lear non soltanto con Edipo Re, ma con l’intero gruppo dei drammi solitamente etichettati come tebani attraverso l’esplorazione specifica del motivo della vista e delle sue connotazioni simboliche.
Francesco Lupi
“Liminalità, (in)accessibilità e caratterizzazione negativa nell’Edipo a Colono di Sofocle”
Nell’Edipo a Colono di Sofocle l’attenzione sul concetto di ‘liminalità’ è introdotta presto nel dramma: nei versi iniziali Edipo allude alla possibilità che lui e Antigone stiano calpestando un terreno sacro (9-11 ἄλλ ̓, ὦ τέκνον, θάκοισιν εἴ τινα βλέπεις / ἢ πρὸς βεβήλοις ἢ πρὸς ἄλσεσιν θεῶν, / στῆσον με κἀξίδρυσον κτλ.). I due personaggi sono in effetti giunti al bosco sacro delle Eumenidi, a Colono. Il bosco è un luogo liminale sotto diversi aspetti: pervaso da elementi ctonii, è un luogo “a metà strada” tra la vita e a la morte, ma è anche liminale in virtù del suo trovarsi alla periferia del mondo urbano di Atene. L’ambientazione del dramma è ulteriormente caratterizzata come inaccessibile attraverso un’appropriata scelta lessicale: il bosco è un luogo οὐκ ἁγνὸν πατεῖν (37), ἄθικτος ουδ ̓ οἰκητός (39), ἀστιβές (126), e così via. Tuttavia, paradossalmente, il solo luogo in cui Edipo è destinato a stare è quello al quale nessun uomo può avere accesso. Tale caratterizzazione negativa non riguarda però soltanto la terra della futura eroizzazione di Edipo; essa contribuisce anche a definire il personaggio e lo status di Edipo nel dramma: il re tebano di un tempo – ora un esule degradato – definisce se stesso ἀπόπολις (208) e ἄπολις (1357); è, inoltre, οὐ σπουδαῖον εἰς ὄψιν (577). In un certo senso, dunque, Edipo è ciò che non è più. Attraverso una dettagliata analisi linguistica, la relazione ha lo scopo di mostrare come Sofocle nell’Edipo a Colono abbia istituito un’interazione tra le caratteristiche “privative” di Edipo e quelle della terra desinata ad accoglierlo. Ulteriori esempi di tale interazione sono disseminati nel dramma e valgono anche per aspetti di natura rituale-performativa (l’acqua con cui Edipo deve versare libagioni è un χεῦμ ̓ ἀκήρατον (471); nel compiere i riti di purificazione per le Eumenidi, egli deve, secondo precise istruzioni, rimanere ἄστροφος (490)). La relazione sostiene pertanto che Sofocle ha cercato di fornire una caratterizzazione coerente e congruente di Edipo, l’eroe ‘liminale’ privato del proprio status sociale, e del bosco sacro e inaccessibile di Colono.
Sheila Murnaghan
“‘More Sinned Against than Sinning’: Agire e Patire in Edipo a Colono e in Re Lear”
Quando Lear nella brughiera dichiara di essere “un uomo / più vittima di peccati che peccatore” (3.2.59-60), la sua tagliente auto-descrizione come soggetto passivo anziché attivo ricorda in modo suggestivo l’insistito appello di Edipo al diffidente Coro dell’Edipo a Colono di non temerlo, ἐπεὶ τά γ ̓ ἔργα μου / πεπονθότ ̓ ἐστὶ μᾶλλον ἢ δεδρακότα, “poiché le mie azioni / furono più subite che compiute” (266-67). La somiglianza tra queste formulazioni è tacitamente registrata nell’edizione Loeb di Sofocle curata da Francis Storr (1912), prodotta in un periodo in cui la tragedia greca era regolarmente assimilata alla tragedia shakespeariana ed era letta attraverso una lente cristiana. L’Edipo parlante inglese di Storr, in effetti, cita Lear, nel dire al Coro di non temere “deeds of a man more sinned against than sinning.” La presente relazione assumerà la stretta similarità di queste formulazioni come punto di partenza per un confronto tra i due drammi. Mentre ci sono significative differenze che l’identificazione di questi versi maschera – Lear sta confrontando gli atti di diversi attori umani mentre Edipo sta ridescrivendo un insieme di atti compiuti soltanto da lui stesso; Lear è vittima di avversari umani mentre Edipo subisce atti divini –, l’accettazione della passività è essenziale nel percorso compiuto da entrambi i protagonisti allorché fanno i conti con la perdita di potere terreno e comprendono di essere partecipi di scenari sovrumani che essi non hanno il potere di determinare, né di controllare direttamente. Sia Edipo che Lear imparano a sperimentare ed esprimere se stessi al passivo, man mano che scoprono nuove forme di influenza e di conoscenza di sé legate al patimento e alla sopportazione.
David Schalkwyk ed Elena Pellone
“‘Non sai far uso di nulla, zietto?’ ovvero qualcosa nasce dal nulla in Re Lear”
Il nostro contributo si articolerà in uno workshop linguistico e in una relazione sul tema del ‘nulla’ in Re Lear. Entrambi esamineranno il linguaggio del dramma e lo spazio negativo del ‘nulla’ intesi quale forza che genera a ripetizione conseguenze sotto forma, invece, di ‘qualcosa’. L’incapacità di Cordelia di dire quel ‘qualcosa’, richiestole nei termini di una retorica formale che il suo cuore sa corrispondere al ‘nulla’, la lascia senza parole – letterale articolazione del ‘nulla’ – e conduce all’allontanamento di lei e all’abdicazione di Lear. La lettera di Edmund, che contiene il ‘nulla’, porta all’esilio di Edgar e, finalmente, alla morte di Gloucester. Privato di ogni bene e financo dell’identità, Lear è dolorosamente costretto a imparare il valore e il peso del ‘nulla’. Ingannato sul fatto che ‘nulla nasce dal nulla’, il re apprenderà invece che ogni cosa proviene dal ‘nulla’. Questo spazio del ‘nulla’, lo zero potente, la perdita di tutto – della propria identità, preconcezioni, inganni sociali, autentico stato nascente del nulla –permette a Lear (letteralmente annichilito, nudo nella tempesta) di intravvedere illuminazione e saggezza nell’atto stesso di non dire ‘nulla’ (“No, sarò un esempio di pazienza. / Non dirò nulla” 3.2.39). All’interno di un incontro seminariale incentrato sul ritmo e sulla parola, esploreremo i modi nei quali il ‘nulla’ è pronunciato nel testo in scene chiave tra Cordelia e Lear, Lear e il Matto, Edmund e Gloucester, e ci interrogheremo se questo nulla è sempre tale sulla scena, dove il silenzio non è dimostrazione del nulla, ma piuttosto un eloquente qualcosa.
Seth Schein
“Padri che maledicono i figli: rabbia e giustizia nell’Edipo a Colono di Sofocle e nel Re Lear di Shakespeare”
Questa relazione illustra il significato drammatico ed etico degli attacchi verbali di padri contro i propri figli nell’Edipo a Colono di Sofocle e nel Re Lear di Shakespeare, in particolare delle furiose maledizioni cariche d’odio che essi lanciano loro contro (e.g. OC 421-7, 789-90, 1372-82, KL 1.1.109-21, 1.4.267-81). La relazione muove da un attento studio comparato del linguaggio delle maledizioni, dei contesti drammatici in cui sono pronunciate, e dei modi in cui sono motivate, approdando a una più ampia discussione delle dinamiche familiari di cui fa parte il discorso dei padri, delle istituzioni politiche e religiose e dei valori che quello ad un tempo esemplifica e sovverte, e della mutevole comprensione da parte dei padri delle proprie responsabilità per ciò che fanno e patiscono. Da un lato, tale discussione getta luce sulla conquista essenzialmente positiva di Edipo – che muore con successo, ottenendo onore postumo come, in effetti, una delle Eumenidi – con il potere di amministrare una giustizia intrafamiliare e ritorsiva e di giovare ad Atene. Dall’altro lato, la discussione chiarisce il fallimento spaventosamente distruttivo e auto-distruttivo di Lear, il quale provoca una sofferenza di portata individuale, sociale e cosmica che il dramma sifda i lettori e gli spettatori a considerare nella sua densità di significato. La radicale pazzia di Lear potrebbe risvegliare una momentanea consapevolezza della sua disfunzionale inadeguatezza come genitore e re, ma la sua morte, insieme alle morti di quanti egli ha odiato e amato, sollecita la riflessione su un universo drammatico di perdita e sofferenza apparentemente insensate.
Gherardo Ugolini
“Un eroe saggio e irascibile. Edipo da Tebe a Colono”
Scopo dell’intervento è di mettere a fuoco le due dimensioni opposte e complementari che caratterizzano l’identità del personaggio di Edipo nella tragedia Edipo a Colono. Da una lato egli si presenta come una figura di “saggio”, un uomo vecchio e cieco (vecchiaia e cecità sono tradizionalmente associate alla saggezza), che ha imparato dalle vicende della propria vita a cogliere il senso profondo della realtà. Tale saggezza si basa sul rispetto della religione, sulla consapevolezza della superiore forza del destino imperscrutabile, del tempo e della verità degli oracoli. È un modello di sapienza radicalmente differente da quello che il giovane Edipo esibiva nel precedente dramma Edipo Re (sapere indiziario, che pretende di misurare e dominare il tempo e che si pone in contrasto con gli oracoli e le profezie). Dall’altro lato Edipo nell’Edipo a Colono lascia di frequente trapelare reazioni impulsive che non sa controllare. Mantiene inalterata quella tendenza alla ὀργή (rabbia, iracondia, stizza) che era una componente essenziale del personaggio nell’Edipo Re. L’espressione più clamorosa di tale attitudine caratteriale sono le ripetute maledizioni scagliate contro i figli maschi. Saggezza e impulsività sono i due aspetti principali che definiscono l’identità di Edipo nell’ultimo dramma sofocleo. Essi si intersecano costantemente nel personaggio scandendo il ritmo del dramma e creando una tensione tra due poli identitari: quello più umano (l’impulsività) collegato alla stirpe e alle disgrazie del passato (parricidio e incesto), ad un passato di cui non può liberarsi pur proclamandosi innocente, e quello tendente al divino che porta Edipo a divenire eroe cultuale e protettore della terra attica.
Susanne Wofford
“Pietà, contaminazione e benedizione in Re Lear e in Edipo a Colono”
***
Modern and Contemporary Oedipuses and Lears
Tamas Dobozy
“Il ‘corpo’ della tragedia in Sam Shepard: A Particle of Dread (Oedipus Variations)”
Il dramma di Sam Shepard, A Particle of Dread (Oedipus Variations), rappresentato per la prima volta nel 2013, rimodella Edipo Re di Sofocle in una serie di frammenti. Il Sofocle di Shepard alterna il testo della fonte classica e la sua ri-narrazione come poliziesco, spesso riordinando (in una sequenza apparentemente casuale) le scene originali e arricchendole di macabro umorismo. Qui la preccupazione sofoclea circa l’autenticità si fonde con l’ossessione – che ha segnato tutta la carriera di Shepard – per il teatro come metafora dell’inevitabilità e imprescindibiità della performance quale mezzo di espressione di sé. Ciò che, per Shepard, regge A Particle of Dread è una irriducibile fascinazione per quello che il critico teatrale Ben Brantley definisce “la persistenza del mito nella nostra memoria collettiva”. Secondo Brantley, A Particle of Dread è una riflessione metateatrale sul “valore”, posto che sia tale, inscritto nelle rappresentazioni tragiche di questi miti, un valore che fallisce sostanzialmente nell’attribuire un significato alla nostra fascinazione offrendo soltanto un ritorno “infinitamente circolare” a domande circa la forma stessa: “Perché spreco il mio tempo? / Perché spreco il tuo? / A che scopo? / Catarsi? / Purgazione? / Metafora? / Che cosa c’è in questo per noi?”. La mia relazione vuole dimostrare come l’interpretazione delle opere di Sofocle da parte di Shepard funzioni come “purgazione” della “metafora” dalla tragedia attraverso il disvelamento del corpo stesso quale agente strutturante del dramma. Se per Sofocle il corpo è spesso rappresentazione figurale di una espressione teatrale riguardante il destino e lo stato, in Shepard esso è ‘de-metaforizzato’. Invece di essere strumento di premonizione, il corpo stesso è destino. Così, una delle ultime opere di Shepard è infestata da un senso di inevitabilità biologica che rimanda alla morte dell’autore prelude alla sua stessa morte – avvenuta nel 2017 per sclerosi laterale amiotrofica, una malattia alla quale la sua produzione finale universalmente allude nel suo caratterizzarsi come progressiva degenerazione dei muscoli e della mobilità fino alla paralisi – e che domina la forma dell’ultimo suo dramma edito.
Nicola Pasqualicchio
“Un lieto fine per i vecchi re: Le roi Léar e Œdipe chez Admète di Jean-François Ducis”
Il drammaturgo francese Jean-François Ducis (1733-1816) è, a nostra conoscenza, il solo autore che abbia composto sia una tragedia derivata dall’Edipo a Colono di Sofocle che un rifacimento del King Lear di Shakespeare. Il suo Œdipe chez Admète (1778) – singolare ibridazione della fonte sofoclea con elementi desunti dall’Alcesti di Euripide – nasce dalla sua predilezione per il tema tragico della vecchiaia e morte del figlio di Laio, ribadita dal parziale rifacimento del 1792 e dalla creazione di un Œdipe à Colone nel 1797. Il trattamento di tale tema costituisce l’unica incursione tematica di Ducis nella tragedia greca; al contrario, Le Roi Léar (1783) rappresenta solo uno (dopo Hamlet e Roméo e Juliette, e prima di Macbeth, Jean sans Terre e Othello) degli omaggi, appassionati e infedeli, che lo scrittore di Versailles rese a Shakespeare. L’Œdipe e il Léar sono da ritenersi opere consecutive, considerato che nel quinquennio che le separa l’ispirazione teatrale di Ducis tacque. Questa circostanza ci ha incoraggiato a reperire tra le due tragedie degli elementi di continuità, il cui esame costituisce il fulcro della nostra relazione: in particolare, in primo luogo, un’analoga espansione della presenza delle figlie (Antigone e Helmonde, corrispondente alla Cordelia shakespeariana) in funzione di una ancor più precisa focalizzazione, rispetto alle fonti, del rapporto tra i padri e le figlie predilette; in secondo luogo, il convergere di entrambe le vicende verso un lieto fine ispirato a un provvidenzialismo che riscatta in un’ottica di teodicea cristiana il percorso tragico dei due vecchi re.
Barry A. Spence
“Sfumature di Re Lear sulla scena beckettiana”
Worstward Ho, tarda opera in prosa di Samuel Beckett e diremmo pionieristica nel suo essere una forma di ‘teatro per la pagina’, realizza molteplici variazioni del suo verso preferito da Re Lear ovvero quello che Edgar, vedendo il padre ormai cieco, pronuncia in un a parte: “Non siamo al peggio / Fin quando possiamo dire ‘Questo è il peggio’” (4.1.28-9). Questo verso è incluso in una serie che Beckett, negli anni Settanta, ricopiò nel cosiddetto Sottisier Notebook (Università di Reading, MS2901) e che aderisce alla sua antica preccupazione per i limiti del linguaggio. Avviando la discussione a partire dall’importanza di Re Lear rispetto a opere più tarde, come Worstward Ho e Stirrings Still, la comunicazione offre una lettura del teatro di Beckett degli anni Cinquanta e Sessanta come direttamente e indirettamente influenzato dalla più devastante delle tragedie shakespeariane. L’attenzione si focalizzerà, in particolare, su Krapp’s Last Tape, a partire dal fatto che il nodo centrale del dramma è straordinariamente simile all’a parte di Edgar. Il mio intento è quella di discutere l’interesse di Beckett per Re Lear (senza dimenticare quello per i drammi sofoclei su Edipo) per giungere a una riflessione su come la poetica beckettiana nel secondo dopoguerra abbia creato un teatro che ha rinnovato e re-immaginato la tragedia shakespeariana (e sofoclea).